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LA PASSIONE DI CRISTO.

RECENSIONE DELL'ARTISTA GABRIELE PAOLINI.






La Passione di Cristo


Fin dall’inizio di questa straordinaria avventura produttiva, Mel Gibson non mancava di far notare che l’obiettivo principale sarebbe stato il realismo. Il problema è che nel corso della lavorazione della pellicola (ma probabilmente fin dall’inizio del progetto) il realismo si è tramutato in Verità. Ecco quindi che ci si è trovati di fronte non più ad un semplice film, ma ad un atto di fede. E, di riflesso, ogni critica cinematografica ad un regista-attore di grande successo diventava automaticamente una dichiarazione blasfema verso la religione cattolica e verso milioni di fedeli.
Non è difficile capire le ragioni di tanto ostracismo. Al di là delle convinzioni genuine ma molto forti (per usare un eufemismo) della star australiana, non deve essere certo dispiaciuto all’ufficio marketing della casa di produzione trasformare un film a basso budget senza star in un evento religioso, riuscendo in questo modo ad attirare l’interesse di migliaia di chiese (peraltro ben desiderose di trovare qualche espediente per risollevarsi dopo i numerosi scandali pedofili che hanno colpito gli Stati Uniti) e milioni di fedeli.

Insomma, sgombriamo il campo da ogni dubbio. Non siamo qui di fronte alla Verità delle Sacre Scritture, ma semplicemente all’interpretazione artistica di un uomo, che come tale va giudicata. E, in questo senso, il responso non può che essere negativo. Iniziamo da uno dei punti cardini dell’operazione “realismo”, ossia l’utilizzo di due lingue morte come il latino e l’aramaico. In teoria, dovrebbero servire per rispettare gli eventi storici, ma quando ci troviamo di fronte a delle comparse che visibilmente non capiscono quello che viene detto o a delle guardie romane che declamano in maniera monocorde in latino, è difficile approvare questa scelta.
Per quanto riguarda i temi presi in esame, è difficile trovare una Verità unica ed assoluta nei Vangeli, che trattano spesso storie e periodi diversi della vita di Cristo. Si tratta insomma di vedere quale verità (con la minuscola) interessi a Gibson.

Da quello che abbiamo visto, si tratta di una visione molto discutibile. Fondamentalmente, gli ebrei sono tutti fanatici che sanno solo urlare “crocifiggilo”, mentre Pilato è un pover’uomo attanagliato dai dubbi e seriamente preoccupato per la sorte di Cristo. Ora, è proprio il ritratto di quest’ultimo a lasciare grandi perplessità. Oltre ad essere molto distante dalla realtà storica (che lo raffigura come un amministratore sanguinario e senza scrupoli), questa caratterizzazione contrasta con il sadismo delle guardie romane, che massacrano Cristo in tutti i modi, lasciando grosse perplessità sulla coerenza dello script (e non sulla Fede). Considerando il manicheismo di Gibson in passate esperienze cinematografiche come Braveheart e Il patriota, forse è eccessivo parlare di antisemitismo nel caso de La passione di Cristo, ma non è certo il caso di scandalizzarsi se qualcuno (con diverse ragioni) tira fuori l’argomento.

L’impressione è che Gibson sia riuscito in una sorta di miracolo al contrario: fondere perfettamente cinema blockbuster e d’autore, riuscendo a prendere il peggio da entrambi.
Infatti, come tanto cinema hollywoodiano degli ultimi anni, La passione di Cristo maschera tutte le sue carenze (non solo di script, ma anche di una visione originale di un tema già affrontato centinaia di volte) grazie ad una marea di effettacci. Piedi che battono al suolo producendo l’effetto di un tuono, musica ispirata senza pause, ridicoli demoni che spuntano dappertutto (in particolare il Satana interpretato da Rosalinda Celentano), abuso di ralenti: tutto utile per comunicare allo spettatore cosa deve pensare e cosa deve provare. Senza parlare, ovviamente, del grande compiacimento nel mostrare le torture subite da Cristo nei minimi particolari, come se il mistero di questo personaggio (che affascina anche i non credenti) si potesse spiegare in base ai litri di sangue versato. E’ un aspetto questo che contraddistingue molto (presunto) cinema d’autore, in cui si pensa che il valore di una pellicola è direttamente proporzionale alla propensione a mostrare immagini scioccanti (e qui la materia prima è abbondante e raccapricciante).

Per non parlare delle scelte di cast. Era veramente impossibile trovare due attrici migliori di Monica Bellucci e Claudia Gerini? Ed era necessario prendere un bulgaro come Hristo Shopov per interpretare l’unico romano (Pilato) che ha dialoghi lunghi e importanti, mettendo così in risalto la differenza di accento tra lui e gli altri attori? Peccato, perché a tratti qualche momento poetico sembra affiorare, come all’inizio del film o quando Maria cerca di aiutare Gesù nella sua via crucis. Ma sono brevi attimi sepolti in questo marasma di violenza, composto di flashback piattamente didascalici e montati malissimo, e che presenta numerose difficoltà per chi non ha (ri)letto recentemente i Vangeli (quanti capiranno che l’Erode mostrato nella pellicola – peraltro in una scena ridicola – non è quello della strage degli innocenti?).
Ma il grande, fondamentale difetto de La passione di Cristo è di non riuscire a dar vita ad un’opera originale che sopravvivrà al marasma mediatico che l’ha circondata. Tra cinquant’anni, mentre Il Vangelo secondo Matteo e L’ultima tentazione di Cristo verranno ancora ammirati, il film di Mel Gibson sarà soltanto additato come l’emblema dei tempi assurdi che stiamo vivendo.









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Pubblicato su: 2004-03-29 (16100 letture)

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