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THE GOOD SHEPHERD - L'OMBRA DEL POTERE.

RECENSIONE DELL'ARTISTA GABRIELE PAOLINI.







Venticinque anni di storia americana, dal 1939 ai primi anni Sessanta, per raccontare la genesi dell'agenzia di spionaggio più famosa del mondo. Alla sua seconda regia Robert De Niro mira molto in alto ma l'ambizioso progetto, nonostante l'indubbia professionalità dell'impianto, non convince. Nella complessa sceneggiatura di Eric Roth la carne al fuoco è infatti tantissima, ma la frammentarietà (gli andirivieni temporali si sprecano) non giova al fluire degli eventi (poco aiuta anche il fatto che mentre gli anni passano, e bambini diventano uomini, il protagonista e sua moglie sono sempre identici). Si cercano di conciliare le ragioni del singolo con quelle collettive attraverso un macchinoso percorso narrativo che vede da una parte l'uomo, obbligato a sacrificare gli affetti e a guardarsi costantemente alle spalle, e dall'altra la Storia, che chiede vittime e inesorabilmente avanza (dalla Seconda Guerra Mondiale alla Guerra Fredda). L'originalità sta nell'asciuttezza della regia, ma se De Niro evita i luoghi comuni del cinema d'azione (le conseguenze delle grandi decisioni sono lasciate all'intuito e alle immagini di repertorio) non risparmia quelli degli spy movie, dal dito mozzato alla valigetta con doppio fondo passando per la grata di un confessionale. Tanto rigore, però, pur nell'eleganza della confezione, non si ammanta di bellezza e anestetizza il risultato.

Nelle quasi tre ore di proiezione, infatti, la noia regna sovrana e, all'ennesimo uomo in grigio che si avvicina con lineamenti lignei al protagonista sussurrando frasi allusive tipo "Le castagne sono sul fuoco", si invoca un energizzante conflitto a fuoco. Anche perché se i personaggi sembrano sempre sapere cosa fare e rispondere per cambiare il destino del mondo, nello spettatore un punto interrogativo si amplia progressivamente. Si dirà che non è quello il fulcro del film, alla ricerca di uno sguardo problematico e non troppo rassicurante sulle contraddizioni di chi parrebbe deciso a proteggere l'umanità (perlomeno quella occidentale), ma le tante micro storie disperdono l'interesse, poco aggiungono e troppo confondono. Non è però solo una questione di sceneggiatura. Anche la regia, infatti, manca di un piglio personale e si limita a imitare i Maestri (da Scorsese a Coppola, qui in veste di co-produttore) dilatando i tempi senza una vera ragione. Al torpore che ne deriva contribuisce anche, suo malgrado, l'onnipresente Matt Damon, obbligato dal ruolo a indossare costantemente una maschera di imperturbabile distacco che finisce per liquidare, con eccesso di sintesi, la psicologia del personaggio. Fuori parte, ma volenterosa, Angelina Jolie e con le facce fin troppo giuste gli altri (da William Hurt ad Alec Baldwin).









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Pubblicato su: 2007-05-03 (730 letture)

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